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Il mercato penalizza i brand che non scelgono

L’EVENTO

Il mercato penalizza i brand che non scelgono

Sette persone su dieci consigliano i marchi considerati come inclusivi, nove persone su dieci parlano male di quelli che non lo sono (o non vengono percepiti come tali): i risultati del Diversity Brand Summit

15 febbraio 2024

di Laura Benfenati

Il Diversity Brand Summit, dal titolo quest’anno molto bello – “Tabula rasa. A volte l’unico modo per iniziare è ricominciare” – si è aperto con la testimonianza toccante di Dajana Gioffrè, Chief visionary officer di AccessiWay, che ha raccontando quanta “non accessibilità” oggi ci sia in un percorso universitario e poi lavorativo di una persona non vedente: piattaforme di iscrizione agli esami e libri non accessibili, cultura aziendale non aperta all’inclusione. «Il 20 per cento delle persone ha una forma di disabilità e non considerarle fruitori di un servizio significa esclusione: per empatia o per business ripartiamo da zero, facciamo tabula rasa, le aziende che vogliono innovare e crescere devono avere un approccio consapevole verso l’inclusione».

I vantaggi di un’impresa inclusiva

Il Diversity Brand Summit, organizzato dalla Fondazione Diversity e da Focus Management, è alla settima edizione: «Il modo migliore per fare inclusione è usarla come mezzo per raggiungere l’obiettivo, non come fine», ha spiegato Francesca Vecchioni, presidente di Fondazione Diversity. «C’è ancora molto da fare, è necessario un cambiamento: continuiamo a immaginare la società che ci circonda diversa da come è in realtà. Sembra sempre di gestire un’eccezione, dover risolvere un problema e poi le persone si sentono il problema. Si devono ripensare da subito idee, processi, prodotti».
Si deve agire sul Brand purpose – come ha spiegato Sandro Castaldo, founder e partner di Focus Management e docente all’Università Bocconi – sulla ragion d’essere di una marca, le cause per cui ci si batte al di là degli scopi commerciali, bisogna far incontrare il brand con il cliente, con i suoi bisogni e le sue aspettative: «Il ruolo che la marca svolge è importante dal punto di vista sociale e deve essere difeso senza compromessi. Essere inclusivi è purpose, un’impresa inclusiva ha indubbi vantaggi: aumenta l’engagement dei clienti e dei dipendenti, aumentano la loyalty e l’attaccamento del dipendente e del cliente all’impresa, e questo comporta crescita del business. Alle imprese si richiede impegno concreto e coerente, i consumatori sono alla ricerca di aziende di cui fidarsi».
La fiducia nei brand inclusivi nasce da esperienza pregressa e durata della relazione (storia inclusiva), dalla capacità di mantenere promesse e soddisfazione (serietà), dalle competenze sul tema (DE&I, Diversity, equity and inclusion), da assenza di opportunismo e trasparenza (no diversity washing), valori della marca (cultura inclusiva) e coerenza nel tempo (inclusive consistency).

Mantenere le promesse nel tempo

«La mancanza di opportunismo percepito è fondamentale: includere è a tutti gli effetti un brand purpose che ha bisogno di concretezza per fare la differenza», ha proseguito Castaldo. «Il purpose senza azione è una mera dichiarazione di intenti, poco rilevante per il mercato di riferimento. Il primo driver della fiducia risiede nella capacità dei brand di mantenere le promesse nel tempo».
Emanuele Acconciamessa, Chief operating officer di Focus Management ha raccontato la metodologia del Diversity Brand Index, che racconta quali sono le marche e le aziende più inclusive: «Prendiamo in esame otto dimensioni della Diversity: genere, età-generazioni, LGBT+, status socio-economico, aspetto fisico, religione e credo, etnia, disabilità. Quest’anno nella web survey, a cui hanno risposto 1.070 persone, sono citati 295 brand, -17 per cento rispetto al 2023: per entrare in questo top le aziende hanno bisogno di coerenza, concretezza, continuità. La popolazione entra maggiormente in contatto con le tematiche della diversità ma il coinvolgimento attivo rimane limitato; si confermano generalmente i valori di familiarità e coinvolgimento con le singole forme di diversità, con scostamenti minimi. Aumenta leggermente il contatto con tutte le aree della diversità e cresce la familiarità verso il genere e l’aspetto fisico». I brand percepiti come più inclusivi crescono rispetto al 2022 nell’ambito Healthcare & Wellbeing (Dove, L’Oreal, Mac Cosmetics, Nivea, Sephora) e Consumer Services (Generali, FS italiane, Intesa San Paolo), così come nel Telco (Fastweb, Tim, Vodafone) e nei Toys (Barbie, Lego, Mattel). Diminuiscono invece nei settori Media, Utility, Consumer Electronics.
«Per quel che riguarda la segmentazione, diminuiscono gli arrabbiati (13,9 per cento), aumentano gli indifferenti (12,8 per cento), crescono gli impegnati (28,4 per cento) e i coinvolti (15,2 per cento)», ha proseguito Acconciamessa. «Il percorso di inclusione è fatto di education. Si rafforza l’atteggiamento critico nei confronti dei brand considerati non inclusivi e i brand inclusivi continuano a capitalizzare il consenso». «Non scegliere – ha poi concluso – è una scelta: sette persone su dieci consigliano i marchi considerati come inclusivi, nove persone su dieci parlano male di quelli considerati come non inclusivi, sei persone su dieci parlano male dei brand considerati come né inclusivi né non inclusivi. Inoltre, confrontando due aziende ipotetiche, simili tra loro, una che investe nella DE&I e una percepita come non inclusiva, il gap tra la crescita dei ricavi delle due aziende può superare il 23,36 per cento a favore dell’azienda inclusiva. Il mercato penalizza i brand neutrali, si fortificano le posizioni positive: tre persone su quattro scelgono con convinzione quelli inclusivi. Servono coerenza, concretezza e continuità per essere brand inclusivi memorabili».

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