Il punto vendita tradizionale va ripensato
COPERTINA
Il punto vendita tradizionale va ripensato
di Laura Benfenati
E anche il marketing che conosciamo, ci dice Andrea Farinet, docente alla Liuc: se l’impresa e il mercato sono sociali non devono sfaldare la società ma costruirla. E le farmacie del futuro? Digital first, innanzitutto, ma anche più vicine alle logiche delle "benefit corporation"
L’incontro con Andrea Farinet è avvenuto per caso: conoscenze in comune, l’invito a un convegno al Retail Institute, una piacevole chiacchierata, l’inizio di una interessante collaborazione. Il professore, associato all’Università Cattaneo Liuc e chairman del Socialing Institute, è uno dei massimi esperti nel marketing on line e sarà relatore nel nostro progetto “Drive the change: scenari e strumenti per la farmacia nella digital èra” realizzato con Dompé, con cui gireremo il Paese parlando di digital strategy nel canale farmacia. «La farmacia tradizionale in cui chiedo qualche consiglio o vado e compro un farmaco prescritto o meno non è il modello del futuro», esordisce.
I farmacisti sono disorientati più che mai in questo momento…
Noi abbiamo avviato una partnership con il Retail Institute e facciamo studi sui punti vendita in tutto il mondo. Il punto di vendita già nella sua definizione non ha più alcun senso. Amazon in Italia fattura 8 miliardi di euro e Conad 13. Da dicembre 2017, quando gli italiani cercano un prodotto, non vanno più su Google ma direttamente su Amazon. I clienti sono molto soddisfatti di questa piattaforma che ha le sue note controindicazioni: distrugge il tessuto sociale, non fornisce alcun tipo di assistenza.
Sappiamo bene che questi big player americani hanno caratteristiche poco etiche: organizzano il lavoro in modo discutibile, eludono i sistemi fiscali nazionali, ci si augura che italiani e europei sviluppino una sensibilità alla via italiana al digitale. Questo marketplace però vive per tutta una serie di servizi e le aziende che sono su Amazon pagano un pedaggio altissimo per rimanerci, il 15 per cento. Oggi il valore di borsa delle cinque principali piattaforme digitali vale più di quello di tutte le altre società quotate nel mondo.
E come si può pensare di competere con questi colossi?
Il punto di vendita deve essere prima di tutto punto di esperienza. In Lombardia su 10 milioni di lombardi nel 2020 più del 35 per cento avrà un’età superiore ai 65 anni: ci sarà sempre più attenzione ai servizi diagnostici, alla prevenzione e all’integrazione nutrizionale. Tante aziende del pharma hanno già cominciato a investire in nutraceutica. Bisognerà trovare un nuovo lessico perché i consumatori richiedono maggiori competenze, sono già informati o disinformati da internet.
L’e-commerce di prossimità può essere una strada percorribile?
Per i malati cronici che hanno bisogno sempre dello stesso farmaco è un’opzione: stanno nascendo a livello italiano diverse realtà di consegna a domicilio del farmaco. La popolazione che invecchia richiede sempre di più questi servizi.
Funzionano? Si sente dire che, nell’ambito della ristorazione, Deliveroo e Foodora non abbiano poi tutto questo successo.
Deliveroo è nato perché il titolare si era trasferito dal Canada a Londra e non trovava un ristorante vicino a casa. Oggi vale 2 miliardi di euro e ha occupato uno spazio. Nell’economia digitale la prima mossa strategica non è guadagnare denaro ma occupare uno spazio, creare un brand e iniziare a conoscere e a profilare i clienti. Stanno cambiando i modelli, nell’ambito healthcare stanno nascendo sempre più start up che supportano i malati cronici nell’aderenza alle terapie, l’offerta non è più soltanto di carattere distributivo ma molto più articolata. Le aziende italiane possono creare una piattaforma di e-commerce e diventare fornitori
per tutto il mondo. Il capitalismo digitale è perfetto per le nostre aziende piccole, che sono molto più veloci.
Nel digitale in un anno si raggiungono i risultati che nell'economia tradizionale si raggiungono in sette anni
Un esempio di punto vendita che cambia, in un altro settore?
C’è un negozio a Firenze, LuisaViaRoma. Gli abiti erano molto apprezzati dai turisti americani. Oggi fattura 62 milioni di euro (in dieci anni) ed è considerato uno dei migliori siti di e-commerce, cresce del 20-30 per cento all’anno. L’economia digitale è molto diversa da quella tradizionale: in un anno si riescono a raggiungere i risultati che nell’economia normale si raggiungono in sette anni. Nel tessile, Luisa di via Roma ci avrebbe messo 70 anni a raggiungere lo stesso risultato. Il mercato è il mondo: ogni giorno su You Tube 800 milioni di persone digitano il nome di un brand italiano.
Il singolo farmacista cosa può fare?
Tantissimo, prima di tutto essere digital first. Significa non avere una mentalità imprenditoriale tradizionale ma chiedersi cosa si può digitalizzare all’interno dell’azienda. E poi mobile first: le connessioni da smartphone superano dal 2017 quelle da tablet e pc. Il tempo medio di permanenza è di otto secondi: non servono più informazioni enciclopediche ma piuttosto titoli efficaci. Il tema delle competenze digitali è fondamentale: non si può imparare da soli ad andare in barca a vela. E poi sempre più contenuti per il digitale dovranno essere multimediali, video.
Il farmacista dovrebbe cominciare a seguire tutorial: su Linkedin ci sono 10 milioni di persone e nel mondo 500 milioni. Ci sono 24.000 farmacisti italiani su Linkedin, soprattutto trentenni e quarantenni. Milano, per esempio, è la quinta sede al mondo di traffico Linkedin: i milanesi adorano questo social, tutto viene profilato, bisogna fare grande attenzione alle impostazioni di profilo.
Quali precauzioni si devono adottare per la propria identità digitale?
Mai postare nulla della propria vita privata, della propria casa e dei propri spostamenti. E nelle impostazioni prevedere sempre profili chiusi e non consentire che vengano venduti a terzi. C’è da lavorare molto su questo. Non molti sanno che se si carica una foto o un video sui social se ne perde la proprietà intellettuale, può essere venduta. L’uomo ormai vive in due dimensioni: quella lavorativa e quella di consumatore. Gli italiani sono nel mondo tra coloro che passano più tempo on line, più di 8 ore alla settimana e più di un’ora al giorno su Facebook. In dieci anni gli italiani hanno perso un’ora di sonno, perché stanno su Facebook.
Come sono cambiati i consumatori?
Il cambiamento in corso nelle attitudini dei consumatori è strutturale: eravamo abituati a un comportamento sequenziale lineare: percepisco il bisogno, mi informo, vado nel punto vendita e acquisto. Oggi questo processo logico è cambiato totalmente: vado su internet, mi informo, ascolto le opinioni su diverse piattaforme digitali, tendenzialmente vado nel punto vendita per prendere un primo contatto con il prodotto/servizio, poi su internet per trovare le condizioni migliori.
E nell’ambito salute questo accade ancora di più?
La salute è il terzo criterio di ricerca su Google dopo i viaggi e i siti erotici: molte persone si fanno autodiagnosi, si somministrano terapie e si fidano di contenitori sul web che spesso non hanno la legittimazione medico-scientifica. Un grande cambiamento degli ultimi anni ha riguardato la scolarità, che per tutto il 1900 è stata più o meno stabile e dal 2000 al 2020 ha subito un’impennata, con moltissimi laureati e diplomati. Al grado di scolarità migliore corrisponde una consapevolezza del proprio ruolo sociale molto più elevato, quindi non c’è più l’atteggiamento passivo nei confronti dell’offerta. Sul mercato si vuole reciprocità perché il livello culturale e scolare ha sensibilizzato le persone su una serie di aspetti, primi tra tutti l’alimentare e il salutistico.
La crisi ha anche influenzato le abitudini di acquisto dei consumatori.
Certo, l’altro grande cambiamento dei consumatori, oltre alla scolarità, è rappresentato dagli effetti culturali della crisi. La nostra economia era a un punto nel 2008 che si riprodurrà solo nel 2027, se si continua con l’attuale tasso di crescita. La capacità produttiva si è ridotta del 25 per cento, in un anno abbiamo perso il 9 per cento di Pil: questo grande appiattimento ha creato una grande scomposizione sociale o socio-economica, non c’è più il ceto medio e c’è invece una parte elitaria che ha un potere di acquisto sempre più elevato. In Italia un milione di famiglie vive di rendita e 150.000 famiglie vivono con la rendita della rendita. Il reddito medio di tutto il resto della popolazione è intorno a 1.350 euro mensili e 5 milioni di italiani vivono sotto la soglia di povertà. Ci sono persone che non comprano i farmaci per curarsi e farmacie che falliscono. C’è l’indice di sperequazione sociale che misura quanto reddito nazionale possiede l’1 per cento più ricco della popolazione: 600.000 italiani possiedono circa il 28 per cento della ricchezza nazionale e il nostro Paese è tra quelli in cui c’è ancora abbastanza equilibrio.
Quali sono i Paesi più ingiusti?
Sicuramente gli Stati Uniti, dove l’1 per cento più ricco possiede circa il 40 per cento della ricchezza nazionale. Questo indice di sperequazione continua ad aumentare e c’è una spiegazione economica precisa: le persone più ricche sono molto più sagge nella gestione delle loro ricchezze, mentre chi ha un patrimonio medio non ha una cultura economica per farlo rendere. Le famiglie italiane però sono le più patrimonializzate al mondo: il loro patrimonio netto, immobiliare e finanziario, è otto volte il nostro Prodotto interno lordo. Le famiglie hanno retto durante la crisi grazie a questi loro patrimoni.
Questo consentirà di “salvarsi” anche alla generazione dei più giovani?
Solo a quelli che hanno competenze molto specifiche nella tecnologia. Oggi ci sono quattro miliardi di persone su internet e nel 2020 saranno 5 e in Europa mancherà l’80 per cento delle persone capaci di curare i processi di digitalizzazione dell’economia. Chi si occupa di questo avrà grandi opportunità di lavoro e di reddito. I laureandi in ingegneria informatica del Politecnico di Milano vengono chiamati dai grandi players dell’economia digitale svizzeri – Facebook, Amazon, Google – e come primo stipendio ricevono 50.000 franchi svizzeri tassati al 10 per cento. Molti accettano l’offerta e non concludono gli studi. Un altro filone interessantissimo è quello della psicologia digitale: è cambiato il comportamento digitale dei consumatori e va studiato.
La parola marketing nel tempo si è svuotata di significato, è diventata un sinonimo di simulazione, manipolazione, finzione
Ed è cambiato il marketing, naturalmente
Durante gli anni di insegnamento del marketing in Bocconi – dal 1983 al 2004 – abbiamo cominciato a chiederci se il benessere dei consumatori stesse migliorando. Nel 1998 Claudio De Matté mi chiese di scrivere un libro ”L’Italia alle soglie dell’Europa: sviluppo o declino?” con altri quattro colleghi, eravamo alle soglie dell’entrata in euro. Io mi occupai di consumi, presi i dati Istat e risultava che dal 1970 al 2000 il potere di acquisto dei consumatori si era dimezzato. Noi parliamo di marketing parlando di economia di mercato, che è fatta da offerta e da domanda. In Italia però siamo in un’economia di offerta, non di mercato: il 50 per cento dei mercati sono collusivi, basti pensare alle telecomunicazioni, alle banche, alle assicurazioni. Non c’è nessuna concorrenza, che marketing si pensa di poter esprimere? Si può fare soltanto un marketing molto manipolatorio, non ha alcun senso. Se si comincia a pensare invece a mercati internazionali – penso a quello che ha fatto Luxottica, per esempio – si fa davvero un’offerta di valore. La parola marketing nel tempo si è svuotata di significato, è diventata un sinonimo di simulazione, manipolazione, finzione.
E quindi?
Abbiamo allora creato il socialing, partendo dal presupposto che il capitalismo più evoluto al mondo è quello tedesco, di economia sociale di mercato: i consumatori sono tutelati, nessun provvedimento legislativo può essere approvato se non ha il loro avvallo. Nel modello di governance delle aziende tedesche, il rappresentante dei consumatori siede nel comitato esecutivo della società e ha diritto di veto. Questo modello, detto renano, consente all’economia e all’impresa di ridurre i conflitti sociali.
Un operaio specializzato del gruppo Volkswagen con 10 anni di anzianità guadagna 3.500 euro netti al mese, nel gruppo Fiat non arriva a 1.500. Noi abbiamo un costo del lavoro alto, c’è tanta previdenza, tante tasse. Il dirigente tedesco guadagna meno di quello italiano, si privilegiano i più svantaggiati. Il modello statunitense invece è il più iniquo al mondo. È un capitalismo selvaggio. Quale è il momento in cui un’azienda esprime la sua sensibilità sociale? Il dialogo con i consumatori, con i quali si deve essere trasparenti e autentici ed esprimere valori. La parola socialing raggruppa Social corporate responsibility e Social network, è un nuovo modo di fare marketing.
Nel nostro settore si comincia a sentire parlare di “benefit corporation“
Gli squilibri sono sempre più forti. Il 75 per cento degli studenti di Harvard ha dichiarato che viviamo in una società ingiusta.
La logica della benefit corporation è più attuale che mai: se l’impresa e il mercato sono sociali non devono sfaldare la società ma costruirla. I profitti sono il risultato dell’azione preventiva e del vantaggio sociale, antagonisti veri del narcisismo esasperato che troviamo quotidianamente nelle nuove piattaforme digitali.
Pubblicato su iFarma – Novembre 2018