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La stagione infinita della “questione morale”

LA LETTERA

La stagione infinita della “questione morale”

«Il nostro modello di professione e di etica deontologica è nutrito di studio e competenza scientifica», ci dice Tonino Marchetti, farmacista rurale ed ex rappresentante di categoria, «ma, al contempo, inscritto in un universo di scambi, urgenze e pubbliche necessità sociali. E non tollera macchie»

18 febbraio 2021

di Tonino Marchetti,
farmacista

Verso la questione morale e la grande ipocrisia di cui spesso resta circondata, la categoria continua a mostrare più allergia che sensibilità? Io spesso, parlando di vicende che hanno interessato diversi aspetti del “mondo farmacia”, della filiera del farmaco e dei vari “protagonisti” (non sempre positivi), prendo a prestito la famosa frase di Rino Formica o meglio ancora uno dei suoi giudizi sulfurei quando, parlando della federazione piemontese disse: «Il convento è povero, sono i frati ad arricchirsi» che, credo, meglio rappresenti diversi e diffusi aspetti che ci riguardano, dove il problema sono gli uomini e non il sindacato.
Kata metron per i Greci antichi significava “secondo misura”. Anche ethos è parola greca che trova molte declinazioni semantiche, da abitudine e comportamento a equilibrio e correttezza.
L’etica, in quanto disciplina filosofica, riguarda lo spazio, tutto lo spazio entro il quale l’uomo, sia come privato sia come zoon politikòn (animale sociale), agisce. Se caliamo questi semplici concetti nel concreto della nostra associazione, nei nostri fini istituzionali volti a conciliare pubblico e privato, interesse privato e bisogni sociali, ci troviamo continuamente di fronte a un enorme problema di credibilità.
Nel senso di dover non solo contemperare il nostro legittimo “bene utile di categoria”, ma di doverlo incardinare nella più ampia cornice della società e delle sue stringenti necessità normative sia giuridiche sia morali. Di qui, come più volte abbiamo ribadito, il nostro modello di professione (e di etica deontologica) nutrito di studio e competenza scientifica, ma – al contempo – inscritto in un universo di scambi, urgenze e pubbliche necessità sociali. Intendendo per sociale non già genericamente la denotazione di un servizio pubblico che da sempre la farmacia svolge con e verso l’altro, bensì la dirimente responsabilità che dalla funzione pubblica discende; ossia la connotazione eminentemente etica del nostro lavoro. Appunto: l’ethos, il costume che ci forma e caratterizza come figure sociali a disposizione del bene pubblico e, per lineare e limpida conseguenza, a sentirci attori di un antico “mestiere” che non può tollerare macchie o sbavature tanto nella esposizione esterna quanto nel contegno privato. È, perciò, questo il punto critico, di questo specifico ed essenziale spazio, insieme professionale e istituzionale che mi permetto di confrontarmi con la delicatissima questione che stiamo vivendo, come farmacisti dotati di soggettiva libertà e come membri di un’associazione da cui assorbiamo (e garantiamo) le responsabilità e i doveri che ne derivano. Allo scopo precipuo di difenderne l’immagine storica prestigiosa e i beni materiali necessari per esplicare al meglio le sue proprie e specifiche finalità.
Non v’è dubbio (alla luce di quanto ho premesso) che la condanna della nostra collega (sentenza 87/2021), per molti, forse troppi anni (oltre 20) presidente di Federfarma Lecce, apra una questione giuridica e tecnica allarmante.
Diritto e morale, interesse generale e responsabilità personale (singola e collettiva) si intrecciano e configurano esattamente lo spazio etico cui accennavo. Vale a dire il concreto caso, empirico e fattuale, su cui non solo la collega condannata, ma tutti noi e le nostre coscienze siamo chiamati a decidere. E non v’è dubbio che nessuna giustificazione emotiva e, tantomeno, contorsione tecnico-procedurale, possono esimerci da una scelta onesta e cristallina. Quali che siano i mezzi giuridici a disposizione della collega – ora in veste di parte soccombente tenuta al risarcimento – le sue dimissioni dalla carica rivestita appaiono doverose e improcrastinabili. Intanto perché (in prima istanza) l’ingiunzione edittale la obbliga a risarcire l’illecito percepito; e a consentire al nostro organo direttivo di procedere tecnicamente al recupero, pena la eventuale consumazione di una nostra inadempienza statutaria. Ma anche e soprattutto (e siamo alla seconda istanza, e però eticamente prima) di ridare alla Federfarma la piena visibilità e agibilità di organismo e istituzione in grado di adempiere ai propri obblighi organizzativi e programmatici. I quali ultimi non possono che essere, insieme, materiali e di nostra tutela professionale, ma anche fortemente ideali.

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